Riforma Decreto PA2: può dirsi davvero concluso il dibattito sulla natura pubblica degli Ordini professionali?

Un excursus normativo e giurisprudenziale sul tema dell’improprio assoggettamento degli Ordini agli obblighi dettati per il comparto pubblico

Il presente contributo vuole ripercorrere le principali tappe del dibattito riguardante la natura pubblica o privata degli Ordini professionali e la loro automatica assoggettabilità agli obblighi imposti al comparto pubblico, evidenziando le recenti novità normative.

Premessa

La recente riforma ad opera dell’art. 12 ter del cosiddetto “Decreto PA 2” (D. L. n. 75/2023, convertito in Legge n. 112/2023) sembra aver posto fine alla discussione circa l’automatico assoggettamento degli Ordini e dei Collegi professionali alla normativa dettata in via generale per il comparto pubblico.

Detto tema è stato in passato oggetto di ampio dibattito poiché Collegi e Ordini professionali sono stati spesso chiamati ad applicare e rispettare disposizioni dettate per le Pubbliche Amministrazioni. Ciò ha spesso determinato esiti paradossali e notevoli costi sia in termini di organizzazione che economici.

Posto che la riforma disposta dal “Decreto PA2” fa chiarezza sull’applicabilità della normativa pubblicistica agli Ordini professionali solo in caso di esplicita previsione, è davvero possibile affermare che il dibattito circa la natura pubblica o privata di tali soggetti sia chiuso? Ciò rileva soprattutto in considerazione del fatto che sussistono tuttora norme che espressamente devono applicarsi anche agli Ordini professionali, ma che si pongono comunque in contrasto con i caratteri tipici degli stessi.

Trattazione

Il tema dell’applicabilità delle norme concernenti le Amministrazioni Pubbliche agli Ordini e ai Collegi professionali trova la propria disciplina generale nell’art. 2, commi 2 e 2-bis del D.L. n. 101/2013, convertito in Legge n. 125/2013, recante le disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle Pubbliche Amministrazioni.

Come detto, tale norma è stata recentemente oggetto di riforma da parte del cosiddetto “Decreto PA 2”, che ha tentato di fare maggiore chiarezza sulla soggezione degli Ordini professionali agli obblighi gravanti sulle Pubbliche Amministrazioni, nonché di frenare la sempre più diffusa tendenza a porre in essere improprie assimilazioni degli stessi alle Amministrazioni Statali.

Gli Ordini e i Collegi professionali sono, infatti, tradizionalmente qualificati come Enti pubblici non economici a carattere associativo, dotati di una propria autonomia regolamentare, patrimoniale e finanziaria. Detta qualifica è stata recepita espressamente dai regolamenti professionali più recenti, quali ad esempio l’ordinamento forense (Legge n. 247/2012) o quello dei dottori commercialisti (D. Lgs. n. 139/2005).

La riconduzione degli Ordini e dei Collegi alla macrocategoria degli enti pubblici non economici è problematica poiché la maggior parte delle norme rivolte in generale al comparto pubblico non delimita precisamente il proprio ambito di applicazione, ma si limita ad individuare i soggetti destinatari in quelli indicati all’art. 1, comma 2, del T.U. del Pubblico Impiego (D. Lgs. n. 165/2001), che comprendono anche gli enti pubblici non economici.

Rilevante per la questione in esame è certamente l’art. 12-ter del D.L. n. 75/2023, che modifica il comma 2-bis del D.L. n. 101/2013, introducendo un nuovo periodo con lo scopo di fare chiarezza in materia. Esso prevede, infatti, in maniera espressa, che <<Ogni altra disposizione diretta alle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non si applica agli ordini, ai collegi professionali e ai relativi organismi nazionali, in quanto enti aventi natura associativa, che sono in equilibrio economico e finanziario, salvo che la legge non lo preveda espressamente>>.

Ad oggi, quindi, al di fuori della normativa di dettaglio menzionata nella prima parte dell’art. 2 comma 2 bis del D.L. n. 101/2013, ogni altra disposizione diretta alle Amministrazioni Pubbliche, di cui all’art. 1 comma 2 del D. Lgs. n. 165/2001, sarà applicabile anche agli Ordini e ai Collegi professionali solo qualora ciò sia espressamente stabilito dalla normativa in oggetto, non essendo più idoneo il semplice richiamo all’elenco di cui al D. Lgs. n. 165/2001 ad estendere la normativa pubblicistica anche a tali soggetti.

In Dottrina ed in Giurisprudenza si è spesso rilevato che già la formulazione antecedente alla recente riforma del 2023 non pareva essere sufficiente a richiedere agli Ordini professionali di adempiere genericamente agli obblighi previsti a carico delle Amministrazioni Pubbliche. L’art. 2, comma 2-bis del D.L. n. 101/2013, si limitava, infatti, a stabilire che “Gli ordini, i collegi professionali, i relativi organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa, con propri regolamenti, si adeguano, tenendo conto delle relative peculiarità, ai principi del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ad eccezione dell’articolo 4, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, ad eccezione dell’articolo 14 nonché delle disposizioni di cui al titolo III, e ai soli principi generali di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica ad essi relativi, in quanto non gravanti sulla finanza pubblica”.

A tal proposito, il TAR Sicilia, richiamando un orientamento del Consiglio di Stato, ha chiaramente precisato la natura ambivalente di Ordini e Collegi professionali, affermando che: << Da quanto fin qui esposto, deve ricavarsi la conclusione che, in carenza di specifica estensione normativa, gli ordini professionali, enti pubblici non economici, in alcuni casi agiscano iure privatorum>> (TAR Sicilia – Catania, sez. I, 05.12.2018, n. 2307).

La non soggezione automatica di questi enti a normative genericamente riferite al comparto pubblico è altresì coerente con la nozione di ente pubblico fatta propria anche dalla Giurisprudenza del Consiglio di Stato: <<La nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non può, dunque, ritenersi fissa ed immutevole. Non può ritenersi, in altri termini, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera automatica la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione. Al contrario, l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione “funzionale” e “cangiante” di ente pubblico. Si ammette senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica.>> (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 11.07.2016, n. 3043).

L’interpretazione secondo cui agli Ordini professionali non possono essere applicate automaticamente le discipline dettate per il comparto pubblico in genere è perfettamente in linea non solo con l’interpretazione fatta propria dai Giudici nazionali, ma ripropone quanto già da tempo affermato dalla normativa e dalla Giurisprudenza europea.

Quest’ultima, da un lato, ha statuito come: <<alla nozione di amministrazione aggiudicatrice, compresa quella di organismo di diritto pubblico, dev’esser data un’interpretazione funzionale>> (CGUE Sentenza 17 dicembre 1998, causa C-353/96, Commissione/Irlanda; CGUE Sentenza 1 febbraio 2001, causa a C-237/99, Commissione/Repubblica Francese) e, dall’altro, ha rilevato come, affinché un soggetto possa essere definito un organismo di diritto pubblico, debbano essere integrati alcuni requisiti.

In particolare, la Corte di Giustizia, pronunciandosi con riguardo ad una controversia tra una società commerciale e l’Ordine professionale dei medici della Vestfalia-Lippe, ha statuito che: <<conformemente all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, della direttiva 2004/18, un ente costituisce un «organismo di diritto pubblico» ai sensi di tale disposizione, ed è soggetto, in quanto tale, alle disposizioni di tale direttiva, quando siano soddisfatte tre condizioni cumulative, cioè che tale ente sia stato istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale [lettera a)], che esso sia dotato di personalità giuridica [lettera b)], e che la sua attività sia finanziata in modo maggioritario dall’autorità pubblica, oppure che la sua gestione sia soggetta al controllo di quest’ultima, oppure ancora che più della metà dei membri del suo organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia designata dall’autorità pubblica [lettera c)]>> (CGUE Sentenza 12 settembre 2013, causa C-526/11, IVD GmbH & Co. KG/Arztekammer Westfalen-Lippe).  È evidente come gli Ordini professionali, dal momento che sono finanziati esclusivamente dai contributi dei propri iscritti, non integrino il terzo requisito richiesto dalla Direttiva 2004/18/CE, oggi abrogata e sostituita, senza modifiche sul punto, dalla Direttiva 2014/24/UE.

Deve inoltre rilevarsi come la stessa normativa europea, nello specifico il Regolamento UE n. 549/2013, riconduca le organizzazioni professionali all’interno della macrocategoria delle “Istituzioni senza scopo di lucro a servizio delle famiglie” e non invece all’interno di quella delle “Pubbliche Amministrazioni”. Ai sensi della Sezione 15 paragrafi 2.129 e 2.130 del Regolamento: <<il settore delle istituzioni senza scopo di lucro al servizio delle famiglie è costituito dagli organismi senza scopo di lucro che sono entità giuridiche distinte al servizio delle famiglie e sono produttori privati di beni e servizi non destinabili alla vendita. Le loro risorse derivano principalmente da contributi volontari in denaro o in natura versati dalle famiglie nella loro funzione di consumatori, da pagamenti effettuati dalle amministrazioni pubbliche e da redditi da capitale.[…] Il settore delle istituzioni senza scopo di lucro al servizio delle famiglie comprende le seguenti istituzioni che forniscono alle famiglie beni e servizi non destinabili alla vendita: a) sindacati, organizzazioni professionali o di categoria, associazioni di consumatori, partiti politici, chiese o società religiose (comprese quelle finanziate ma non controllate dalle amministrazioni pubbliche), circoli sociali, culturali, ricreativi e sportivi[…]>>.

È dunque evidente come, anche per la normativa e Giurisprudenza europea, gli Ordini professionali, dati i loro caratteri di specialità, non soggiacciano automaticamente alla disciplina dettata per il comparto pubblico in genere. Non può, di conseguenza, non farsi propria una definizione funzionale e cangiante di ente pubblico in forza della quale gli Ordini e Collegi professionali possono essere considerati enti pubblici per l’applicazione di determinate normative, quali ad esempio quella di cui al “Decreto Trasparenza”, ed enti agenti iure privatorum per altri fini ed istituti.

Come detto, quest’interpretazione è stata fatta propria dal Legislatore nazionale che, con la recente riforma prevista dal “Decreto PA2”, sembra aver posto fine al dibattito circa la valenza del richiamo generico all’elenco di cui all’art. 1 comma 2 del D. Lgs. n. 165/2001.

Tutto ciò detto, è curioso evidenziare come l’intervento riformatore non abbia però disposto la soppressione dell’ultimo periodo dell’art. 2, comma 2-bis del D.L. n. 101/2013, aggiunto poco tempo prima dal D.L. n. 44/2023, convertito in Legge n. 74/2023, il quale prevede espressamente che: <<Per tali enti e organismi – Ordini e Collegi professionali – restano fermi gli adempimenti previsti dall’articolo 60, comma 2, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001>>.  In forza di tale previsione gli Ordini e Collegi professionali soggiacciono all’obbligo di comunicazione dei costi del personale alla Ragioneria generale dello Stato e alla Corte dei Conti, tramite immissione diretta nel Sistema Conoscitivo del personale dipendente delle amministrazioni pubbliche (SICO). È da segnalare, inoltre, come la rilevazione delle informazioni delle quali è richiesto l’invio si inserisca all’interno dei flussi informativi del Sistema Statistico Nazionale. Di conseguenza, ai sensi degli artt. 7 e 11 del D. Lgs. n. 322/1989, in caso di mancato adempimento a detto obbligo, troveranno applicazione le sanzioni amministrative pecuniarie ivi previste, con concessione di un ulteriore termine per l’adempimento e, in difetto, apertura del procedimento sanzionatorio di cui agli artt. 13 ss. della Legge n. 689/1981.

Con la Circolare n. 15 del 2019, il MEF, proprio con riferimento a detto obbligo, aveva espressamente stabilito che: “Per dare piena attuazione al dettato dell’art. 1, comma 2 del D. Lgs. n. 165/2001 nella parte in cui individua come amministrazioni pubbliche tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, a partire dalla rilevazione corrente sono tenuti all’invio dei dati tutti gli Ordini Professionali”. La suddetta Circolare è stata poi annullata nel 2022 dal TAR Lazio, il quale ha affermato che l’estensione agli Ordini professionali della specifica disciplina dettata dal D.Lgs. n. 165/2001 sul controllo della spesa pubblica sul personale operata dal MEF <<ha di fatto innovato l’ordinamento in violazione del principio di legalità, in quanto vi ha ricompreso soggetti che, pur svolgendo funzioni di rilievo pubblicistico, non rientrano nella categoria degli enti pubblici sopposti per legge al controllo sulla spesa poiché non finanziati con fondi pubblici>> (TAR Lazio – Roma, 02.11.2022, n. 14283).

Le conclusioni cui è pervenuto il TAR evidenziano come anche le finalità della comunicazione dei dati richiesti, indicate dallo stesso MEF nelle proprie Circolari, mal si concilino con la natura degli Ordini professionali e la loro estraneità alla finanza pubblica.

Non è, pertanto, chiara la ragione che sta alla base della scelta del Legislatore di non abrogare l’ultimo periodo dell’art. 2 comma 2-bis del D.L. n. 101/2013 che, oltre a porsi in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto, determina altresì un enorme costo in termini di organizzazione per gli Ordini ed i Collegi, nonché un effetto distorsivo sul Bilancio pubblico. Da un lato, infatti, tali soggetti hanno spesso alle proprie dipendenze un numero esiguo di lavoratori, dall’altro, il fatto che siano finanziati esclusivamente dai contributi versati dai propri iscritti e, dunque, non gravino sulla Finanza statale, fa sì che la comunicazione del costo del personale produca l’effetto di falsare il Bilancio pubblico.

Conclusione

Alla luce dell’excursus normativo e giurisprudenziale operato, appare legittimo chiedersi se la norma introdotta dal “Decreto PA2” abbia in concreto risolto il dibattito sull’improprio assoggettamento degli Ordini professionali agli obblighi dettati per il comparto pubblico.

Se, infatti, da una parte, è vero che l’introduzione del nuovo periodo all’art. 2, comma 2 bis del D.L. n. 101/2013, sembra precludere la possibilità che il semplice richiamo operato da una normativa pubblicistica all’elenco di cui dell’art. 1 comma 2 del D. Lgs. n. 165/2001 determini l’estensione della stessa anche agli Ordini professionali, dall’altra si rileva come tuttora sussistano normative che espressamente debbono applicarsi anche agli Ordini professionali, nonostante ciò produca effetti paradossali. È questo il caso dell’art. 60 del D. Lgs. 165/2001 che, dopo una travagliata vicenda giurisprudenziale, ad oggi, per previsione esplicita dell’ultima parte dell’art. 2, comma 2 bis del D.L. n. 101/2013, si applica anche agli Ordini professionali.

Quest’ultima previsione genera un evidente contrasto interno nella stessa norma, poiché se, ai sensi del primo periodo del comma 2-bis, agli Ordini professionali è richiesto di adeguare i propri regolamenti ai soli principi della normativa pubblicistica, tenendo conto delle loro peculiarità, invece, l’ultimo periodo del comma 2-bis, impone agli stessi di adempiere ad un obbligo che si pone in netta opposizione con le loro peculiarità e i loro caratteri tipici.

È auspicabile che il Legislatore o, in mancanza, la Giurisprudenza, intervengano per risolvere detto conflitto.

Riferimenti normativi:

  • Art. 2, commi 2 e 2-bis D.L. 101/2013, conv. in L. 125/2013;
  • Art. 12-ter D.L. 75/2023, conv. in L. 112/2023;
  • L. 247/2012;
  • D.Lgs. 139/2005;
  • Artt. 1, comma 2 e 60 D.Lgs. 165/2001;
  • D.L. 44/2023, conv. in L. 74/2023;
  • Artt. 7 e 11 D. Lgs. n. 322/1989;
  • Artt. 13 e ss. Legge n. 689/1981;
  • Circolare MEF n. 15 del 2019;
  • Art. 1, paragrafo 9 Direttiva 2004/18/CE, oggi abrogata e sostituita da Direttiva 2014/24/UE;
  • Sezione 15 paragrafi 2.129 e 2.130 Regolamento UE n. 549/2013.

Riferimenti giurisprudenziali:

  • TAR. Sicilia – Catania, sez. I, 05.12.2018, n.2307;
  • Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 11.07.2016, n. 3043;
  • CGUE Sentenza 17 dicembre 1998, causa C-353/96, Commissione/Irlanda;
  • CGUE Sentenza 1 febbraio 2001, causa a C-237/99, Commissione/Repubblica Francese;
  • CGUE Sentenza 12 settembre 2013, causa C-526/11, IVD GmbH & Co. KG/Arztekammer Westfalen-Lippe;
  • TAR Lazio – Roma, 02.11.2022, n. 14283.

(Avv. Nellina Pitto)

(Dott.ssa Martina Badiali)

(Dott.ssa Emma Vannelli)

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