LA CONTRIBUZIONE PREVIDENZIALE DEL SOCIO LAVORATORE DI SRL

Gli utili accantonati a riserva non rientrano tra i redditi d’impresa rilevanti ai fini IRPEF ai quali è rapportato il contributo previdenziale (C. App. Firenze, sentenza n. 555/2023)

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza 20 dicembre 2023, n. 555 (testo in calce), è intervenuta con una interessante pronuncia in tema di contribuzione previdenziale del socio di società di capitali confermando quanto già stabilito dalla sentenza di primo grado del Tribunale di Arezzo n. 3/2022 (testo in calce).

La vicenda trae origine dalla notifica da parte della Gestione Artigiani e Commercianti dell’INPS di due comunicazioni di debito ed un successivo avviso di addebito con cui veniva richiesto ad un socio lavoratore di una società a responsabilità limitata il pagamento dei contributi a percentuale, eccedenti il minimale, in relazione a utili prodotti dalla società. Nel caso di specie detti utili non erano stati distribuiti ai soci, ma imputati a riserva.

Salvo alcune sentenze di merito (Tribunale di Bologna n. 210/2019, Corte d’Appello Bologna n. 487/2020, Tribunale di Spoleto n. 157/2022), la giurisprudenza sino ad oggi si era pronunciata con riguardo al solo caso di un lavoratore autonomo iscritto alla Gestione Artigiani e Commercianti dell’INPS che, oltre al reddito percepito per la propria prestazione lavorativa, percepiva anche un reddito da partecipazione in una società di capitali in cui non svolgeva alcuna attività lavorativa.

Nella pronuncia in commento, invece, i Giudici Toscani si sono espressi con riguardo al diverso caso offrendo stimolanti spunti di riflessione che vanno ad arricchire la discussione circa la debenza dei contributi a percentuale dei soci lavoratori di società di capitali.

Il caso

A seguito delle menzionate comunicazioni da parte dell’INPS e del successivo avviso di addebito il socio lavoratore della srl si rifiutava di effettuare il versamento alla Gestione Artigiani e Commercianti dei contributi a percentuale eccedenti il minimale. Il socio, dopo essersi visto rigettare il ricorso amministrativo presentato all’Ente, presentava dunque ricorso per accertamento negativo ex art. 442 c.p.c. presso la Sezione Lavoro del Tribunale di Arezzo al fine di veder riconosciuta l’infondatezza della richiesta di integrazione contributiva avanzata dall’Ufficio Artigiani e Commercianti dell’INPS.

Il Giudice aretino, Dott. Giorgio Rispoli, accertava e dichiarava che <<l’interpretazione delle norme che sottende alle richieste di integrazione contributiva avanzate dall’Ufficio Artigiani e Commercianti dell’INPS è infondata e che nulla è dovuto in suo favore dal socio lavoratore>>.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso in appello l’INPS richiedendone la riforma con declaratoria di legittimità delle due comunicazioni di debito e riproponendo le argomentazioni offerte in primo grado, fondate sulla consolidata interpretazione fornita dallo stesso Ente in forza delle norme sul calcolo del contributo previdenziale dovuto dai soci lavoratori di una società di capitali (artt. 1, comma 1 della Legge n. 233/1990 e 3-bis del D.L. n. 384/1992, conv. in Legge n. 438/1992). Si costituiva in giudizio l’appellato il quale, ribadiva le sue argomentazioni come recepite dalla sentenza di primo grado.

Il commento

Le decisioni del Tribunale di Arezzo e della Corte di Appello di Firenze si fondano su una lettura delle norme di riferimento per la determinazione del contributo previdenziale annuo per gli esercenti il commercio e l’artigianato, diversa rispetto a quella fornita fino a questo momento dall’Ente previdenziale.

Il combinato disposto degli artt. 1, comma 1 della Legge n. 233/1990 e 3-bis del D.L. n. 384/1992, conv. in Legge n. 438/1992 stabilisce che l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alla Gestione Artigiani e Commercianti sia pari al 12% della “totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”.

Con le circolari nn. 32/1999 e 102/2003, l’INPS ha per anni interpretato tali norme nel senso che “per i soci lavoratori di S.r.l., iscritti in quanto tali alle Gestioni dei commercianti e degli artigiani, la base imponibile, fermo restando il minimale contributivo, è costituita dalla parte del reddito d’impresa dichiarato dalla S.r.l. ai fini fiscali ed attribuita al socio in ragione della quota di partecipazione agli utili, prescindendo dalla destinazione che l’assemblea ha riservato a detti utili e, quindi, ancorché non distribuiti ai soci“.

Secondo la tesi sostenuta dall’Ente, quindi, qualora si tratti di soci che prestano la propria attività lavorativa nell’azienda, questi dovrebbero sostanzialmente essere soggetti al regime della trasparenza fiscale, come previsto per legge per i soci delle Società di persone, in forza del quale il reddito prodotto dalla Società è imputato al socio in maniera proporzionale alla sua quota di partecipazione, ma indipendentemente dalla sua effettiva percezione.

Nel caso oggetto della sentenza in commento la società, una S.r.l., non aveva mai optato per l’applicazione del regime di trasparenza fiscale, gli utili prodotti erano stati accantonati a riserva, e quindi, non erano mai stati concretamente percepiti dai soci. Nonostante ciò, l’INPS ha continuato a sostenere la propria tesi e la propria pretesa di integrazione contributiva nei confronti del socio lavoratore.

Confermando quanto già disposto dal Tribunale di Arezzo, i Giudici Fiorentini hanno, invece, annullato le comunicazioni di debito e l’avviso di addebito, dando seguito a pochissime altre pronunce analoghe che si pongono in contrasto con la posizione dell’INPS (Tribunale di Bologna n. 210/2019, Corte d’Appello Bologna n. 487/2020, Tribunale di Spoleto n. 157/2022).

Stante l’assoluta novità della questione affrontata, per comprendere la valenza della sentenza in commento ed il contributo offerto all’interpretazione della normativa di riferimento, è opportuno soffermarsi sui due temi centrali affrontati dalla Corte: da un lato il diverso trattamento fiscale riservato ai redditi delle società di persone, rispetto a quello previsto per i redditi delle Società di capitali, dall’altro la modalità di calcolo dei contributi annui dovuti dagli iscritti alla Gestione Artigiani e Commercianti.

Quanto al primo tema, mentre alle Società di persone si applica ex lege il cosiddetto regime di trasparenza fiscale di cui all’art. 5 TUIR, secondo cui <<I redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili>>, per quelle di capitali gli artt. 115 e 116 TUIR prevedono l’imputazione del reddito prodotto dalla società di capitali direttamente ai soci, non in maniera automatica, ma soltanto a patto che la società abbia validamente esercitato tale opzione.

Da ciò discende come il reddito prodotto da una società di persone venga imputato, e dunque sia tassato, in capo al socio indipendentemente dal fatto che vi sia una distribuzione di utili e dunque indipendentemente dal fatto che il socio percepisca effettivamente tale reddito, mentre, nel caso delle società di capitali, laddove l’opzione non sia stata esercitata, il reddito prodotto da quest’ultime sarà tassato in capo ad esse e non in capo ai soci, con la precisazione che qualora si abbia una distribuzione di dividendi questi verranno tassati in capo ai soci secondo la disciplina specifica prevista per tali redditi.

L’intima differenza di trattamento previsto per il reddito d’impresa a seconda che questo sia prodotto da società di persone o da società di capitali è stata ribadita anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 354 del 7.11.2001, citata dal socio lavoratore nel proprio ricorso in primo grado, secondo cui:<<secondo il d.P.R. n. 917 del 1986, cui la norma denunciata fa rinvio, mentre i redditi da capitale costituiscono gli utili che il socio consegue per effetto della partecipazione in società dotate di personalità giuridica (art. 41), soggette, a loro volta, all’imposta sul reddito dalle stesse conseguito, i redditi c.d. di impresa di cui fruisce il socio delle società in accomandita semplice (così come, del resto, il socio delle società in nome collettivo) sono i redditi delle stesse società, inclusi nella predetta categoria, come già visto, dall’art. 6 del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, e, al tempo stesso, da imputare “a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione”, proporzionalmente alla “quota di partecipazione agli utili”, in forza del precedente art. 5 (redditi prodotti in forma associata). Ciò fa sì, appunto, che il reddito prodotto dalle società in accomandita semplice sia reddito proprio del socio, realizzandosi, in virtù del predetto art. 5, come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, sia pure agli specifici fini tributari, “l’immedesimazione” fra società partecipata e socio>>.

Nel caso di specie, l’impossibilità di applicazione automatica del regime di trasparenza fiscale alle società di capitali in assenza dell’esercizio dell’apposita opzione fa sì che il reddito prodotto dalla società non possa essere imputato direttamente ai soci e dunque non possa essere base di calcolo per i contributi dovuti dagli iscritti alla Gestione Commercianti ed Artigiani.

Solo il riconoscimento della centralità dell’esercizio dell’opzione permette di non generare un discrimine, che, per quanto possibile, il sistema cerca sempre di evitare, tra reddito imponibile della persona fisica ai fini fiscali ed il reddito su cui viene calcolata l’obbligazione contributiva.

Quanto al tema della modalità di calcolo, come anticipato, l’art. 1 l. n. 233/1990 e l’art. 3 bis del D.L. n. 384/1992 convertito con L. n. 438/1992 prevedono che la misura dei contributi dovuti dagli iscritti alla Gestione Artigiani e Commercianti debba rapportarsi non solo al reddito d’impresa che ha dato luogo all’iscrizione alla Gestione ma a tutti i redditi d’impresa rilevanti per il calcolo dell’Irpef dovuta dal contribuente. Per entrambe le norme, dunque, qualora un determinato reddito non si configuri, per un qualsiasi motivo, come un reddito d’impresa rientrante nella base imponibile Irpef, questo non dovrà essere tenuto in considerazione per il calcolo dei contributi dovuti dagli iscritti alla Gestione Artigiani e Commercianti.

In forza delle argomentazioni sopra riportate, i Giudici Fiorentini hanno, pertanto, affermato che la situazione dei redditi accantonati in riserva possa ritenersi equiparabile alla situazione del reddito prodotto dalla Società di capitali laddove il socio non svolga attività lavorativa, unico caso su cui peraltro fino a questo momento ha avuto modo di esprimersi la Suprema Corte (ex multis sentenze nn. 21540/2019, 23790/2019, 23792/201924096/201924097/2019). In tali occasioni la Corte ha affermato che << […] l’obbligo assicurativo sorge nei confronti dei soci di società a responsabilità limitata esclusivamente qualora gli stessi partecipino al lavoro dell’azienda con carattere di abitualità e prevalenza>> e che <<[…] gli utili derivanti dall’essere socio di capitale di società di capitali, come quelle in cui l’appellato aveva le proprie quote, non rientrano nella nozione di reddito di impresa di cui al D.L. n. 384 del 1992, art. 3 bis (convertito nella L. n. 438 del 1992)>> (Cass. n. 23790/2019).

Questa interpretazione, avallata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, è stata poi recentemente recepita, con la circolare n. 84/2021, dall’INPS stessa che ha sintetizzato il concetto affermando che <<[…] gli utili derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa, disciplinati dal TUIR tra i redditi di capitali, non sono ascrivibili alle disposizioni di cui all’art. 3 bis del D.L. n. 384/1992. Restano invece ferme le regole ordinarie di obbligo contributivo in caso di svolgimento dell’attività lavorativa all’interno di società di capitali da parte dei soggetti che hanno quote di partecipazione nelle stesse società>>.

I Giudici Fiorentini, in forza dei principi sopra espressi, hanno tuttavia sostenuto che l’interpretazione fatta propria dall’Ente si pone nettamente in contrasto con la disciplina fiscale contenuta nel TUIR.

Conclusione

In conclusione, il Tribunale di Arezzo prima, e la Corte d’Appello di Firenze poi argomentano in maniera innovativa l’esclusione dei redditi della società di capitali accantonati a riserva dalla base imponibile su cui calcolare il contributo dovuto alla Gestione Artigiani e Commercianti dal socio lavoratore.

I Giudici Toscani, occupandosi di un caso diverso da quelli oggetto delle sentenze della Corte di Cassazione sopra citate, accolgono la tesi difensiva secondo cui gli utili accantonati a riserva non possano essere ricompresi tra quei redditi d’impresa rilevanti ai fini IRPEF ai quali è rapportato il contributo previdenziale, ai sensi dell’art. 3-bis del D.L. n. 384/1992, poiché, non essendo effettivamente conseguiti dal socio, questi devono considerarsi imputati alla società, anche in considerazione dell’imprevedibilità delle vicende societarie che potrebbero portare ad una distribuzione degli stessi ad un socio diverso da quello interessato.

Come detto, la sentenza in commento si inserisce tra le pochissime pronunce di merito che hanno ad oggetto il caso di un socio lavoratore di una società di capitali e gli aspetti maggiormente rilevanti di tale pronuncia risiedono da un lato nell’aver fatto riacquistare centralità all’esercizio da parte delle società di capitali dell’opzione per l’applicazione della trasparenza fiscale, dall’altro nell’aver evidenziato come il reale discrimine per il computo del reddito prodotto dalla società ai fini del calcolo del contributo dovuto dall’iscritto alla Gestione non sia tanto il fatto che quest’ultimo presti attività lavorativa all’interno della Società, quanto piuttosto l’effettiva percezione di tale reddito.

(Avv. Eleonora Lepri) (Dott.ssa Emma Vannelli) (Dott.ssa Martina Badiali)

Link per consultazione articolo:

https://www.altalex.com/documents/news/2024/02/02/contribuzione-previdenziale-socio-lavoratore-srl

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